Mettere la persona la primo posto

Il suicidio di Marshawn Kneeland, 24 anni, giocatore dei Dallas Cowboys mette in evidenza, ancora una volta dopo una tragedia, la necessità di considerare prima la persona e solo dopo le sue prestazioni.

Nel mondo dello sport, l’espressione “put people first” assume un significato particolarmente potente ma poco considerato. Significa pensare all’atleta, allenatore o tifoso prima del risultato, del trofeo o della performance. In altre parole, mettere la crescita umana e il benessere psicofisico al centro dell’esperienza sportiva.

Applicare in modo sistematico questo principio nello sport porterebbe numerosi benefici. Prima di tutto, migliorerebbe la salute mentale degli atleti: riducendone lo stress, il burnout e la paura di fallire, favorendo una motivazione più autentica. Quando un ambiente sportivo valorizza la persona e non solo la prestazione, gli atleti si sentono più sostenuti, più liberi di esprimersi e quindi più performanti.

Un approccio “people first” favorirebbe anche la coesione del gruppo. Le squadre che si fondano su rispetto, ascolto e fiducia reciproca sviluppano una forza collettiva che va oltre il talento individuale. L’empatia diventa la vera chiave del successo.

Infine, questo modo di vivere lo sport aiuterebbe a diffondere modelli positivi per le nuove generazioni: giovani che imparano che vincere è importante, ma che la dignità, la collaborazione e la crescita personale valgono di più.

In sintesi, “put people first” nello sport non significa rinunciare alla vittoria, ma costruire un percorso in cui il trionfo più grande è diventare persone migliori.

Dal giudizio alla comprensione: ripensare l’apprendimento e l’errore

Nella tradizione scolastica, l’insegnamento è stato considerato come un’arte del tutto originale e l’insegnante collocato in una posizione piuttosto ambigua, a metà tra l’artista e l’artigiano: culturalmente eclettico, ricco di iniziativa, indipendente nelle scelte didattiche.

Oggi, nel mondo dell’istruzione, è in atto una vera e propria involuzione pedagogica, favorita anche da spinte tecnologiche e metodologiche eccessivamente uniformanti, dove l’alunno fatica a riconoscersi come protagonista del proprio percorso formativo e il docente sembra aver smarrito la propria funzione di “accompagnatore” nella costruzione delle competenze.

La complessità del processo di insegnamento-apprendimento, in cui l’interazione tra docente e discente rappresenta il fondamento su cui basare stili e strategie metodologiche, può produrre risultati positivi solo se liberata da pregiudizi e dogmatismi valutativi. Come afferma Sánchez Bañuelos«la validità di un progetto didattico non si misura su alcun dogmatismo dottrinario aprioristico, ma sono i risultati educativi che a posteriori ne determinano il reale valore».

In questa prospettiva si inserisce la riflessione di José Mourinho, che ha dichiarato: «Un allenatore deve essere tutto: un tattico, motivatore, leader, metodologo, psicologo». Tale affermazione, al di là del contesto sportivo, esprime una concezione dell’educatore come figura poliedrica, capace di integrare competenze diverse e di adattarsi alle specificità di ciascun individuo. Un suo docente universitario di filosofia gli ricordò infatti che «un allenatore che sa solo di calcio non è di livello superiore», evidenziando come la competenza tecnica, se isolata, non basti a definire la qualità di un professionista.

Un’idea affine emerge nel pensiero di Benjamin S. Bloom, secondo il quale «indipendentemente da ciò che s’impara, quasi tutte le persone possono imparare, se fornite dei giusti antecedenti e condizioni adeguate di apprendimento».
Entrambe le prospettive convergono sull’importanza del contesto e delle condizioni di crescita: per Mourinho, l’efficacia dell’educatore dipende dalla sua capacità di coniugare metodo, empatia e leadership mentre per Bloom, l’apprendimento è possibile per tutti, purché il sistema fornisca strumenti e ambienti adeguati.
Tuttavia, mentre Bloom denuncia i limiti strutturali del sistema scolastico e le disuguaglianze socioeconomiche che ostacolano l’uguaglianza delle opportunità, Mourinho richiama la responsabilità personale dell’insegnante o dell’allenatore nel saper leggere la complessità umana e formarsi in modo continuo. In entrambi i casi, la centralità dell’allievo e la qualità della relazione educativa restano elementi imprescindibili.

Affermare che un alunno “non capisce”, come talvolta si sente dire nei consigli di classe, implica un giudizio statico e riduttivo: presuppone che la difficoltà di comprensione sia un tratto permanente, anziché un ostacolo temporaneo da analizzare e superare.
La pedagogia, invece, parte dal principio che ogni alunno può apprendere, se sostenuto da metodologie adeguate, tempi personalizzati e un clima di fiducia reciproca. Quando un discente non comprende, le cause possono risiedere nel metodo, nel linguaggio, nel contesto o in fattori emotivi e motivazionali: non nella sua incapacità.

L’apprendimento è sempre una relazione. Se emerge una difficoltà, il docente deve interrogarsi — sto utilizzando il metodo giusto? — e riconsiderare strumenti, tempi e strategie. Ogni studente possiede un proprio stile cognitivo e modalità diverse di elaborare le informazioni. Dire “non capisce” significa ignorare questa diversità, che è invece il punto di partenza per sviluppare competenze autentiche.

L’etichettamento produce effetti negativi duraturi: mina la motivazione, riduce l’autoefficacia e alimenta un circolo vizioso d’insuccesso. La pedagogia, al contrario, richiede osservazione analitica, valutazione formativa e interventi mirati.

Tale attenzione diventa ancor più necessaria nei confronti degli alunni di origine straniera che non hanno ancora piena padronanza della lingua italiana. Lo stesso è accaduto negli anni Sessanta, quando i figli delle famiglie provenienti dal Sud Italia frequentavano le scuole del Nord, vivendo forme simili di esclusione linguistica e culturale. In tal senso, la scuola italiana non ha mai realmente superato queste dinamiche, dimostrando una persistente difficoltà nell’integrare pienamente la diversità come valore educativo.

La normativa scolastica italiana prevede che la valutazione tenga conto del percorso linguistico e di inserimento, non soltanto dei risultati assoluti. Se uno studente comprende i concetti ma fatica a esprimerli linguisticamente, la scuola deve aiutarlo a colmare il divario, non penalizzarlo. Confondere la conoscenza dei contenuti con la competenza linguistica significa tradire la funzione inclusiva dell’istruzione.

Personalizzare l’insegnamento, adattare gli obiettivi e diversificare gli strumenti di valutazione sono condizioni imprescindibili per garantire equità e rispetto dei principi costituzionali. Bocciare uno studente che ha mostrato impegno e progressi, ma che incontra difficoltà linguistiche, contraddice la finalità educativa della scuola, che deve offrire pari opportunità di successo formativo.

L’istituzione scolastica, in quanto comunità educativa, è chiamata a predisporre strumenti di supporto linguistico e didattico — glossari, prove semplificate, tutoraggio, attività di potenziamento — che permettano agli studenti di dimostrare le proprie reali competenze disciplinari.
Ogni volta che il docente pianifica un intervento educativo, ha il dovere di riflettere con rigore su mezzi, contenuti e metodi, riconoscendo la responsabilità condivisa del processo formativo.

In caso contrario, entrambi gli attori — insegnante e alunno — rischiano di perdere qualcosa, e la mancanza di apertura al cambiamento istituzionale e curricolare non farà che ampliare le disuguaglianze, alimentando nuove forme di disagio e di ingiustizia sociale.

Chi può e vuole… adesso.

Massimo Oliveri e Alberto Cei

Noi contro il mondo: il potere e i limiti della mentalità di Conte

La cosiddetta sindrome di accerchiamento è un atteggiamento psicologico spesso adottato da allenatori carismatici come Antonio Conte. Consiste nel percepire — o far percepire — a sé stessi e al gruppo di essere sotto assedio: dai media, dagli avversari o persino dalla società sportiva. È una strategia di motivazione basata sull’idea che, sentendosi minacciati, si rafforzi l’identità collettiva e la voglia di reagire. L’allenatore, in questo caso, diventa il leader che protegge il gruppo da un “mondo esterno” ostile.

Il sentirsi accerchiato può generare una forza straordinaria: spinge a superare i propri limiti, a lavorare con maggiore intensità e a mettere da parte gli ego personali per un obiettivo comune. Molti tecnici alimentano volutamente l’idea del nemico per tenere alta la concentrazione e creare un “noi contro tutti” che cementa la squadra.

Tuttavia, questa visione del calcio differisce profondamente da quella che lo intende come condivisione di un progetto, fondato sulla collaborazione, sulla fiducia reciproca e sulla crescita collettiva. La sindrome di accerchiamento si basa sul conflitto e sulla reazione, mentre il calcio come progetto condiviso si fonda sulla costruzione e sull’evoluzione comune. Nel primo caso, l’energia nasce dalla difesa; nel secondo, dalla partecipazione.

Il rischio è che l’ossessione per i nemici esterni riduca la capacità di creare un’identità positiva e duratura, fatta di idee di gioco e senso di appartenenza più ampio. La coesione nata dal sentirsi accerchiati è forte ma fragile: si regge sulla contrapposizione. Quella costruita sulla condivisione è più lenta ma più stabile. Non a caso, Conte — pur spesso vincente — tende a restare poco nei club che allena: la tensione che alimenta il suo metodo, col tempo, diventa insostenibile per l’ambiente. È un approccio che brucia energie, genera risultati immediati, ma difficilmente crea cicli lunghi o serenità.

 

Il sogno olimpico di Sofia Goggia: un obiettivo scritto 20 anni fa

Divertente che oggi su Instagram Sofia Goggia per ricordare a tutti il suo obiettivo di vincere l’oro alla e prossime Olimpiadi di Cortina, abbia montato sotto una sua foro la scheda degli obiettivi compilata più di 20 anni fa in cui scriveva che era proprio questo il sogno della sua carriera agonistica e che questa scheda è tratta dal mio libro del 1987  intitolato “Mental Training”.

 

Allenatori-esordienti in squadre top: una scelta tra fascino e illusione

Nel calcio di oggi le mode cambiano in fretta e una delle più diffuse è quella di affidare la panchina a un ex campione un volto conosciuto qualcuno che rappresenti la storia del club e che possa riportare entusiasmo e appartenenza dopo stagioni difficili da Seedorf a Pirlo passando per Thiago Motta e Tudor alla Juventus negli ultimi anni in tanti hanno provato questa strada convinti che il carisma potesse bastare a ricostruire un ciclo.

All’inizio funziona quasi sempre, la squadra reagisce, l’ambiente si accende, lo spogliatoio ritrova stimoli e il nuovo tecnico viene accolto come un profeta. L’effetto novità è forte, le idee sono semplici, la comunicazione diretta e il gruppo si compatta i risultati arrivano e sembra l’inizio di una nuova era ma il calcio è crudele e la magia spesso svanisce in fretta.

Dopo qualche mese arrivano le prime difficoltà e lì si vede la differenza tra chi è pronto e chi no, perché allenare non è solo mettere in campo idee, è gestire tensioni, crisi, infortuni e spogliatoi complicati; è capire i momenti e prendere decisioni impopolari e serve esperienza quella che un esordiente di solito non ha.  Molti ex campioni scoprono che il rispetto guadagnato da giocatori non basta per tenere insieme un gruppo quando i risultati non arrivano

A volte manca anche una base solida, un metodo vero, si cerca d’imitare i grandi modelli Guardiola o Klopp ma senza il tempo e la struttura per farlo davvero e così l’entusiasmo iniziale lascia spazio alla confusione, il gioco si perde, i risultati calano e la società che all’inizio voleva ricominciare si ritrova punto e a capo.

Eppure ci sono esempi che fanno sperare Arteta con l’Arsenal, Xabi Alonso con il Leverkusen,  Guardiola ai suoi inizi con il Barcellona;  storie in cui la scommessa ha funzionato perché c’era un progetto solido, una dirigenza forte, uno staff preparato e soprattutto pazienza e fiducia nella crescita del tecnico e nel suo modo di vedere il calcio

Affidarsi a un ex campione può essere una scelta romantica e affascinante ma non può diventare una scorciatoia, serve metodo, equilibrio e la forza di resistere ai momenti difficili altrimenti si rischia di vivere un sogno che dura pochi mesi, il carisma e la conoscenza dello spogliatoio sono un punto di partenza ma senza una visione e un lavoro quotidiano restano solo belle parole

Il calcio moderno corre veloce e chiede risultati subito ma le vere rivoluzioni nascono dal tempo e dalle idee non dall’effetto nostalgia, scegliere un allenatore giovane può essere la strada giusta ma solo se dietro c’è una società che crede davvero nel futuro non solo nel nome scritto sulla maglia.

Quando l’errore diventa colpa: l’approccio attuale non forma gli arbitri e non aiuta le squadre

Il designatore degli arbitri Gianluca Rocchi, in seguito agli errori commessi dai giudici di gara  nelle ultime partite, ha dichiarato: “Non vogliamo punire nessuno, ma capire la logica dell’errore. Se è comprensibile, non c’è problema; se è illogico o nasce da protagonismo, allora sì, fermiamo l’arbitro. Il nostro compito è fornire il miglior servizio alle squadre”. Parole ragionevoli, ma che rivelano un’impostazione più disciplinare che formativa, che rischia di non migliorare gli arbitri e tantomeno il servizio alle squadre.

Affermare che si vuole capire la logica dell’errore sembra un atteggiamento aperto. Tuttavia, senza un processo strutturato di analisi, confronto e revisione, resta una semplice valutazione retrospettiva: l’errore viene valutato più o meno accettabile  ma non si aiuta l’arbitro a crescere. Ad alto livello, la formazione arbitrale moderna dovrebbe essere continuativa e concentrarsi sulle ragioni dell’errore — pressioni, posizionamento, lettura del gioco, comunicazione col VAR — e su come evitare che si ripeta.

Inoltre, quando si afferma che un errore “illogico o da protagonismo” porta a fermare l’arbitro, il messaggio è chiaro: chi sbaglia, rischia. Questo non crea cultura, ma ansia da prestazione. L’arbitro diventa più attento a non sbagliare che a interpretare correttamente. Ne derivano decisioni più prudenti, meno autentiche, più condizionate dalla paura del giudizio che dal senso del gioco.

Servire le squadre significa migliorare la qualità media, non fermare i “colpevoli”. Il capo degli arbitri dice di voler offrire “il miglior servizio alle squadre”. Ma fermare chi sbaglia non migliora la qualità complessiva del gruppo arbitrale, così come cambiare un calciatore dopo un errore non migliora la squadra. Le squadre hanno bisogno di arbitri competenti, coerenti e sereni, non di una rotazione continua di fischietti timorosi di perdere la designazione e i loro guadagni.

Il mondo arbitrale italiano è ricco di professionalità, ma spesso schiacciato da una cultura della colpa. Servirebbe invece un cambio di paradigma, che parta dall’analisi sistematica delle decisioni, non per giudicare, ma per apprendere; promuovere la discussione tecnica e la condivisione dei criteri; valorizzando in questo modo la continuità e la trasparenza nel processo di valutazione. Solo così si costruisce un sistema realmente formativo per le prestazioni arbitrali di alto livello, dove l’arbitro non teme di essere fermato ma si sente stimolato a migliorare.

 

Paolo Casarin: Vita e pensieri di un arbitro

Paolo Casarin ha pubblicato la lunga storia della sua vita come arbitro, capo degli arbitri italiani e dirigente di livello mondiale nel mondo del calcio. Il libro s’intitola Vita e pensieri di un arbitro – Sessant’anni dentro e fuori il campo di calcio”, ed è pubblicato da Rizzoli con la prefazione di Gianni Mura. Casarin ci porta dentro la sua vita, dalle prime partite arbitrate sui campetti polverosi fino ai palcoscenici internazionali di FIFA e UEFA. Un racconto personale e sincero che è anche la storia di un calcio che non esiste più: quello senza VAR, senza replay, ma con passione, rispetto e – a volte – isolamento. Un libro diretto, appassionato, pieno di aneddoti, visione e riflessioni su un ruolo centrale e troppo spesso frainteso.

Casarin fornisce una definizione del calcio “inteso anche come la ricerca del modo più efficace per vincere una sfida: due gruppi di giocatori in contrapposizione  fra loro, guidati da due maestri a bordo campo e chiamati a ottenere una momentanea superiorità” e spiega che usando una terminologia introdotta da Piaget afferma che ” nel calcio in quanto gioco prevalgono i processi di assimilazione” giocare secondo le proprie capacità ma nel “calco in quanto spettacoloso prevalgono i processi di accomodamento, dal momento che il giocatore è costretto a modificare continuamente se stesso per contribuire alle necessità della squadra”.

La sua vita nel calcio è stata un’esperienza senza fine, un’esperienza esistenziale vissuta come persona competente e consapevole del valore del ruolo e non da arbitro autoritario che vuole imporre la sua autorità nel calcio. Nelle riunioni svolte con gli arbitri da designatore ha continuato a riproporre questo approccio alla prestazione arbitrale dicendo sempre che l’arbitro era un invitato delle squadre e che ognuno dove sentirsi responsabile del suo ruolo, anche perchè la domenica seguente un altro loro collega sarebbe sceso sullo stesso campo e doveva trovare un ambiente favorevole a causa di quanto era successo nelle partite precedenti.

Grazie a questo approccio positivo verso la componente psicologica dell’arbitraggio ho potuto lavorare con Paolo Casarin per tutti gli anni in cui è stato designatore degli arbitri di Serie A. Al lavoro svolto insieme ha voluto dedicare dedicare un capitolo di questo libro dal titolo “L’area psicologica dell’attività arbitrale” in cui descrive quanto fatto in quegli anni. Abbiamo così introdotto la preparazione psicologia alla partita, abbiamo valutato le capacità attentive e interpersonali degli arbitri e altro ancora. Personalmente, quegli anni fanno parte dei momenti migliori della mia vita professionale ed è stato un periodo, lungo, ma irripetibile perchè al termine dell’esperienza di Casarin in questo ruolo si è conclusa  anche la mia collaborazione e da allora mai nessun altro si è occupato di quest aspetti della vita arbitrale.

Chiamami Mister: podcast sul sogno di diventare istruttori nello sport

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“Chiamami Mister” è il podcast appena uscito realizzato da Aligi Pontani e Giuseppe Smorto sull’esperienza di 5 ragazzi over18 con autismo che giocano a calcio nella nostra Accademia di calcio integrato e che sono diventati aiuto-istruttore di calcio. Sono storie che vogliono sviluppare l’idea che lo sport possa diventare  per questi ragazzi appassionati di calcio non solo un piacere ma anche una possibile opportunità lavorativa.

Il podcast si compone di tre puntate, ascoltatelo

AI Overview da Safari
“Chiamami mister” è un podcast in tre puntate di Aligi Pontani e Giuseppe Smorto che racconta l’esperienza di un’accademia di calcio integrato a Roma, dove cinque ragazzi con autismo sono diventati vice-istruttori. Il podcast esplora il loro percorso, dagli allenamenti iniziali al superamento dell’esame di abilitazione, con il sostegno di genitori, istruttori e una voce narrante di Daniela Di Giusto. L’iniziativa, realizzata in collaborazione con Fandango Podcast, mira a sfatare i luoghi comuni sull’autismo attraverso lo sport.
  • Contenuto:

    Storie di incontri, frustrazioni, gol segnati e subiti da parte di ragazzi autistici che hanno conseguito un esame per diventare assistenti allenatori.

  • Persone:

    Aligi Pontani, Giuseppe Smorto (scrittori), Daniela Di Giusto (voce narrante), e i ragazzi dell’Accademia del Calcio Integrato di Roma.

  • Obiettivo:

    Smantellare i pregiudizi sull’autismo e dimostrare come lo sport possa favorire l’integrazione sociale, l’abbraccio e l’uscita dall’isolamento.

  • Disponibilità:
    Il podcast è gratuito e disponibile su tutte le piattaforme audio.

Spunti per parlare con i genitori

I genitori dovrebbero essere le prime guide nel cuore dei propri figli, insegnando loro il valore della responsabilità e della condivisione. Due semi preziosi che, se piantati con amore, cresceranno forti dentro di loro e li accompagneranno per tutta la vita.

È importante far capire che le difficoltà e gli errori non sono fallimenti, ma occasioni per imparare, per scoprire chi si è davvero e per capire che anche i momenti più duri hanno qualcosa da insegnare. Solo affrontando gli ostacoli si impara a camminare con coraggio.

I genitori dovrebbero trasmettere ai figli la gratitudine, quella che nasce dal cuore e che insegna ad apprezzare le piccole cose: un sorriso, un gesto gentile, un pasto condiviso, una giornata serena. Essere grati rende leggeri e dona forza anche nei momenti difficili.

Ogni azione, piccola o grande che sia, porta con sé una conseguenza. Le scelte negative lasciano segni e insegnamenti, mentre quelle positive costruiscono ponti, aprono strade e creano felicità. Capire questo aiuta i bambini a crescere con senso di giustizia e rispetto.

E forse una delle lezioni più importanti è non cedere alla cultura del “tutto e subito”. Viviamo in un mondo che corre, ma i veri valori nascono nella lentezza, nell’attesa, nella dedizione quotidiana. Insegnare la pazienza significa donare ai figli la capacità di godere del percorso, non solo del traguardo.

Solo così potranno diventare adulti consapevoli, capaci di affrontare la vita con equilibrio, di amare con sincerità e di riconoscere la bellezza nelle cose semplici. Perché l’educazione non è solo insegnare a vivere: è insegnare ad essere, con il cuore aperto e la mente libera.

Giocare come piace o giocare per vincere: la necessità di trovare un equilibrio

Nella mia esperienza nel tennis mi troppo spesso ad affrontare la situazione  in cui alcuni giovani, ragazzi e ragazze,  dicono spesso: “Voglio giocare come piace a me”. E’ comprensibile: ognuno vuole divertirsi, esprimersi, sentirsi libero in campo.

Ma spesso dietro questa frase si nasconde una trappola mentale che limita la crescita e porta solo frustrazione.

Quando un giocatore sceglie di giocare “come gli piace”, di solito significa che privilegia lo stile istintivo, i colpi spettacolari, l’improvvisazione. Tuttavia, questo approccio, se non è sostenuto da disciplina e consapevolezza tattica, porta a commettere troppi errori. E ogni errore mina la fiducia, finendo per rendere il gioco meno piacevole di quanto si immaginava.

Dall’altro lato, quando un allenatore propone un metodo più “giusto” – cioè più tattico, paziente, efficace – molti giovani si annoiano. Lo percepiscono come una forma di costrizione, un modo che “non li rappresenta”. Ma quella noia nasce solo perché ancora non vedono il risultato dietro lo sforzo. Non si rendono conto che proprio attraverso quel tipo di gioco, apparentemente meno divertente, possono costruire la base per vincere, migliorare e, col tempo, esprimere se stessi con efficacia e libertà.

Giocare “come ti piace” è una bella idea, ma se non impari a farlo nel modo giusto, diventa un autoinganno. Ti sembra libertà, ma in realtà ti incatena agli stessi errori e alle stesse delusioni.
Il vero piacere nel tennis non è solo colpire forte o fare il vincente spettacolare: è sentire di avere il controllo, di saper scegliere, di essere padrone del gioco. E questa sensazione arriva solo quando impari a unire libertà e disciplina.

Quindi, cosa dire a un ragazzo che pensa così?

“Il tuo modo di pensare non è sbagliato perché vuoi divertirti, ma è incompleto. Giocare come ti piace è un obiettivo bellissimo — ma devi costruirti le basi per poterlo fare riducendo il numero di errori e controllando in modo più efficace  il gioco. Se ti limiti a giocare come vuoi senza imparare il metodo, ti condanni a non essere mai soddisfatto: perché non vincerai abbastanza, e neanche ti sentirai migliorare”.

Il tennis, come la vita, ti insegna che la vera libertà arriva quando hai padroneggiato le regole.
Prima impari a giocare in modo intelligente, poi potrai davvero giocare “come piace a te” — ma con risultati, con soddisfazione, e con il piacere profondo di sapere che stai facendo le cose bene.