Il calcio italiano alla ricerca di un capro espiatorio

In questi giorni di caos per la nazionale italiana di calcio i principali commentatori hanno imputato la sconfitta con la Norvegia, nella partita di qualificazione per i prossimi mondiali, allo scarso livello tecnico dei calciatori mentre lo stesso ct Luciano Spalletti si è detto dispiaciuto per non essere riuscito a fare al meglio il suo lavoro.

Non voglio mettere in discussione queste spiegazioni e tantomeno quelle che incolpano la FIGC e il suo presidente.

Quello che invece mi piacerebbe sapere riguarda cosa è stato fatto prima per costruire una squadra unita e consapevole delle difficoltà e dei compiti che l’aspettava.

Sappiamo o almeno dovremmo sapere tutti che se una squadra non ha grandi individualità e un gioco ben rodato non deve certo arrendersi ma predisporsi alla lotta in ogni centimetro del campo e giocatori pronti a intervenire quando un compagno si sta per trovare in difficoltà. In sostanza, a prescindere da tutto, mai mollare di un metro. Essere tenaci, cioè continuare a fare quello che si è fatto anche dopo che lo si è fatto.

Con questo premesse mi chiedo come sono passati i giorni pregara, come sono stati affrontati questi temi in allenamento e nelle riunioni tecniche o invece, come spesso ho visto accadere, si è parlato solo di questioni tecnico-tattiche avulse dal fattore umano. E’ troppo semplice affermare che i giocatori a disposizione erano scarsi, serve a qualcosa?

E’ facile dire che non mostrato l’orgoglio di vestire la maglia azzurra ma come dovrebbero averlo sviluppato calciatori che non giocano nelle squadre italiane perchè a loro è preferito uno straniero qualsiasi, calciatori che sono mentalmente cresciuti sotto un procuratore che pensa solo a fare lievitare i compensi. Certo che tutti dovrebbero avere sviluppato il senso di appartenenza, che tra l’altro è uno dei bisogni fondamentali di noi esseri umani, ma chi glielo avrebbe dovuto insegnare?

Purtroppo questi temi non interessano, quindi, continuino pure a trovare di volta in volta un capro espiatorio diverso.

Sinner e Alcaraz: i duellanti

Lo sport appassiona per la sua capacità di proporre duelli sino all’ultimo respiro tra due atleti. Fra i più importanti e ricordati troviamo  le sfide nel ciclismo tra Coppi e Bartali o Merck e Gimondi, nelle moto quelle fra Biaggi e Rossi, e nel tennis Nadal e Federer a cui si aggiunse Djokovic. Noi spettatori siamo attratti da questi duelli per la semplice ragione che non ne conosciamo l’esito. Si dice “vinca il migliore” sarebbe più vero dire invece “vinca chi oggi sarà il migliore”. Non si vince una volta per tutte ma ogni volta si ripete la stessa situazione come nel libro di Joseph Conrad “Il duello” e riproposto da Ridley Scott nel film “I duellanti” che narra la storia di due uomini che durante le guerre napoleoniche si rincorrono per soddisfare un senso di rivalsa personale. Nello sport questo stato d’animo viene sublimato attraverso la ricerca del dominio sull’avversario raggiunto attraverso il confronto pubblico tra due avversari regolamentato in modo preciso e con un/a giudice di gara che vigila sul rispetto di questo codice sportivo. Ieri abbiamo assistito a uno di questi confronti storici fra due tennisti di livello assoluto, giovani, i primi due del ranking mondiale che rappresentano il presente ma soprattutto il tennis dei prossimi 10 anni.

Jannik Sinner e Carlos Alcaraz hanno dato vita a un match storico per una serie di ragioni. La durata più lunga di una finale del Roland Garros, 5 ore e 29 minuti. Questi numeri non rappresentano solo un dato per gli amanti della statistica ma stanno indicare il valore che questi due atleti hanno attribuito al giocare ogni singolo punto, evidenziandone la tenacia. Essere tenaci richiede di continuare a fare quello che si è fatto dopo che lo si è fatto.

Questa spiegazione non è uno sciogli lingua ma indica che bisogna continuare a giocare con la stessa intensità ed energia fisica  anche quando ci si trova in svantaggio di due set a zero, come è successo ad Alcaraz o che bisogna continuare a spingere a restare nel gioco senza volerne uscire con colpi improbabili anche quando la fatica sembra insostenibile o dopo la delusione di tre match point persi come è successo a Sinner.

Qualcuno potrebbe dire “ma sono campioni” ed è per questo che si comportano in questo modo. Personalmente la penso in modo opposto sono diventati campioni poiché si allenano per mostrarsi in partita in questo modo. Ciò che li caratterizza è la capacità di essere sempre dentro il gioco lasciando uno spazio minimo alla gioia o alla delusione e restando sempre concentrati sul loro gioco quale che sia il punteggio.

Per queste ragioni credo si possa dire che abbiamo assistito a un match storico e che queste occasioni si ripresenteranno ogni volta che s’incontreranno. Però il giorno per recuperare forza mentale e fisica bisogna ritornare alla quotidianità e Sinner c’è lo ha ricordato dicendo che ora starà in famiglia e che suo padre non era presente alla partita perchè stava lavorando.

Le dimensioni psicologiche del tennis

Si parla molto di tennis ma troppo spesso al di là di generiche spiegazioni psicologiche non viene fornita una illustrazione di quelle che sembrano essere le principali caratteristiche di questo sport.

Sport di opposizione

Il tennis è uno sport di opposizione individuale, in cui l’obiettivo è dominare l’avversario attraverso il proprio gioco. Non si tratta solo di eseguire colpi corretti o vincenti, ma di imporre una strategia, leggere quella dell’altro e adattarsi costantemente a ciò che accade in campo. La partita si svolge in una condizione di duello mentale continuo, in cui ogni punto è una battaglia psicologica.

Durata indeterminata e resistenza mentale

Una delle caratteristiche più peculiari del tennis è la lunghezza variabile della partita. A differenza di altri sport con tempo cronometrato, un match può durare da meno di un’ora a oltre cinque ore, a seconda del punteggio e dell’equilibrio in campo. Questo richiede una gestione della fatica fisica e soprattutto psicologica a lungo termine. Il giocatore deve dosare le energie, mantenere la concentrazione e restare lucido anche dopo ore di gioco intenso.

Gestione dell’errore

Nel tennis si commettono molti errori, anche a livello professionistico. Errori gratuiti, doppi falli, rovesci finiti in rete: fanno parte del gioco. La capacità di accettare l’errore senza crollare emotivamente, ma anzi di reagire in modo costruttivo, è una delle competenze mentali fondamentali. I migliori tennisti sono coloro che non si abbattono, ma imparano a “ripartire” subito dopo un punto perso.

Routine tra i punti e autoriflessione

Il gioco è scandito da pause brevi e frequenti tra un punto e l’altro. Questi momenti di stop, se non gestiti bene, possono diventare spazi per la distrazione o per il rimuginio. Per questo i giocatori professionisti sviluppano routine personali tra i punti: asciugarsi, sistemarsi i vestiti, respirare profondamente, pensare al piano tattico. Queste azioni servono a mantenere il focus, regolare le emozioni e prepararsi al punto successivo.

Autodialogo e incoraggiamento

Il tennis richiede un uso attivo del dialogo interno. I tennisti parlano con sé stessi durante la partita per incoraggiarsi, concentrarsi o correggersi. Frasi come “vai così”, “gioca profondo”, o “rimani lì” servono a regolare l’attenzione e la motivazione. Questo tipo di auto-consapevolezza può fare la differenza nei momenti di crisi o quando si è sotto pressione.

Pensiero tattico e flessibilità mentale

Ogni avversario ha uno stile diverso, e ogni partita evolve in modo imprevedibile. Il tennis richiede adattamento continuo, sia tecnico che mentale. Cambiare ritmo, provare soluzioni nuove, leggere le intenzioni dell’altro sono tutte abilità che dipendono da una mente flessibile e pronta al cambiamento.

Isolamento competitivo

Durante il match,  il coaching è limitato, il giocatore è solo con sé stesso. Non può contare su una squadra per compensare un momento di calo. Questo richiede autonomia emotiva e decisionale, e la capacità di essere il proprio allenatore in tempo reale.

10 anni di calcio e autismo riassunti in un libro

I temi trattati nel libro “Calcio e autismo” che ho scritto insieme ai miei collaboratori rappresenta l’illustrazione della metodologia e dei risultati raggiunti con il programma di calcio integrato promosso dall’Asd Accademia di Calcio Integrato, realizzato grazie al supporto di AS Roma. E’ attivo da oltre 10 anni e rappresenta un modello didattico innovativo volto all’inclusione di giovani con disabilità intellettive. L’obiettivo principale è favorire l’integrazione attraverso lo sport, valorizzando il calcio come esperienza educativa, relazionale e riabilitativa.

Il progetto coinvolge bambini e adolescenti con e senza disabilità, promuovendo il lavoro di squadra e lo sviluppo di competenze sociali. Fin dall’inizio è stato strutturato un percorso formativo di 32 ore per uniformare le competenze del team, composto da tecnici del calcio giovanile, psicologi, logopedisti e medici.

Le attività sono state progettate per adattarsi alle capacità individuali dei ragazzi, in particolare a quelle di chi presenta disturbi dello spettro autistico, che mostrano grande variabilità nelle abilità motorie e psicosociali. Il programma include anche sessioni individuali, quando necessario, per garantire un intervento personalizzato.

I risultati annuali hanno dimostrato l’efficacia del metodo, convalidato da articoli scientifici pubblicati nel corso degli anni. Il progetto ha inoltre avuto un importante impatto sociale grazie alla collaborazione con scuole del territorio e insegnanti di sostegno, favorendo l’inclusione scolastica dei partecipanti.

Anche le famiglie hanno avuto un ruolo attivo, trovando nell’ambiente degli allenamenti un luogo di condivisione e supporto reciproco.

Il progetto ha goduto del sostegno del Comitato Paralimpico Italiano (CIP), della FISDIR e della Regione Lazio, che ne hanno rafforzato la struttura e la diffusione.

Nel tempo si è formata una vera e propria comunità incentrata sul benessere dei giovani con disabilità, dimostrando come lo sport possa essere un potente strumento di integrazione.

Infine, un sentito ringraziamento va a tutti coloro che, con impegno e dedizione, hanno reso possibile il successo di questa esperienza unica.

I campioni hanno una motivazione assoluta, nonostante le insicurezze con cui convivono

A proposito di gestione dell’ansia e in più in generale auto-regolazione delle emozioni nello sport mi sono venuti in mente atleti/e con cui ho lavorato nel corso degli anni e che hanno vinto molto. Margherita Zalaffi la prima e unica a oggi ad avere vinto medaglie olimpiche sia nel fioretto che nella spada; Alessandra Sensini l’atleta più vittoriosa nella storia della vela italiana; Giovanni Pellielo il più forte tiratore a livello mondiale di fossa olimpica; Daniele Scarpa oro nella canoa e Andrea Minguzzi oro nella lotta greco-romana.

La loro grande abilità psicologica era di volere in modo assoluto raggiungere l’obiettivo che si erano prefissi. Nello stesso tempo sapevano molto bene che sarebbe stato molto difficile e che avrebbero potuto fallire. Sono passati attraverso momenti di sconforto anche intensi per il timore di cosa sarebbe potuto accadergli senno avessero vinto ma hanno insistito.

D’altra nei questionari di valutazione della tenacia si usano spesso termini che indicano il desiderio estremo o assoluto di volere raggiungere i propri obiettivi; pertanto non ci si deve stupire se i top atleti mostrano lo stesso atteggiamento.

Sono convinto che sia questo approccio mentale all’allenamento e alla prestazione che determina quel piccolo vantaggio finale, magari anche solo dell’1% che distingue chi va a medaglia da chi si ferma ai piedi del podio e chi si ripete più volte, i vincitori seriali da chi brilla una sola volta.

Molti atleti non hanno questo approccio alla loro vita sportiva e agonistica ed è probabilmente questa mancanza che gli impedisce di raggiungere quegli obiettivi che sognano di raggiungere.

 

Nel calcio a 8 anni: prima l’impegno e il divertimento e per ultimo il risultato

Un allenatore mi ha chiesto di spiegare se dividere bambini di 8 anni in tre fasce per livello di abilità motorie nel calcio è sbagliato. 

Dividere bambini di 8 anni in tre fasce per livello di abilità motorie nel calcio è problematico per diversi motivi, soprattutto alla luce delle teorie dello sviluppo giovanile dello sport formulate da Jean Côté, uno dei principali studiosi nel campo della psicologia dello sport.

1. Contrasto con il Modello di Sviluppo Positivo attraverso lo Sport (PYD)

Jean Côté ha sviluppato il modello del Developmental Model of Sport Participation (DMSP), che promuove una partecipazione sportiva basata sul divertimento, l’inclusione e la diversificazione nelle prime fasi (soprattutto fino ai 12 anni). Secondo Côté:

“In the sampling years (ages 6–12), children should engage in various sports with an emphasis on enjoyment and deliberate play rather than early specialization or performance-based selection.”
(Côté, J., Baker, J., & Abernethy, B. – Practice and Play in the Development of Sport Expertise, 2007)

Dividere i bambini in fasce per abilità a 8 anni equivale a un’eccessiva enfasi sulla prestazione precoce, ostacolando proprio quel contesto di gioco libero e inclusivo che Côté ritiene fondamentale.

2. Rischio di esclusione e perdita di motivazione

Creare gruppi basati su livelli di abilità può portare a:

  • Stigmatizzazione dei bambini che in quel momento sono fisicamente meno sviluppati di altri
  • Perdita di autostima
  • Minor motivazione a lungo termine

Secondo Côté, un clima orientato alla competizione precoce porta spesso all’abbandono sportivo, mentre un clima orientato al divertimento e alla partecipazione favorisce la permanenza nello sport e lo sviluppo di abilità motorie nel tempo.

3. Sottovalutazione delle traiettorie di sviluppo individuali

Le abilità motorie a 8 anni sono altamente variabili e influenzate da molti fattori non stabili, come lo sviluppo fisico, le opportunità di gioco, e il supporto familiare. Côté sottolinea che:

“Early ability is a poor predictor of long-term success in sport.”
(Côté & Fraser-Thomas, 2007)

Selezionare o dividere i bambini in base a queste abilità a una fase così precoce non è predittivo del loro potenziale futuro e può invece limitare le opportunità per chi si sviluppa più lentamente.

Conclusione

Applicare una divisione per livelli a bambini di 8 anni nel calcio va contro i principi dello sviluppo positivo attraverso lo sport. Una tale pratica:

  • Riduce il piacere e l’inclusività.
  • Favorisce la precoce esclusione.
  • È basata su criteri non affidabili per il lungo termine.

L’approccio migliore consiste nel promuovere il gioco misto, la varietà e la scoperta, lasciando che le abilità si sviluppino naturalmente in un ambiente di supporto e motivazione.

 

 

Lo sport oggi: sogno, professione e sfida psicologica

Fino a qualche decennio fa, praticare sport era per molti una passione coltivata nel tempo libero, un’attività che si alternava allo studio o al lavoro. Solo una piccola élite riusciva a trasformare lo sport in una carriera. Oggi, invece, lo scenario è completamente cambiato: lo sport è diventato un modello di vita, una professione a cui ambiscono milioni di giovani, sostenuti spesso da famiglie che investono tempo, denaro ed energie nella loro crescita atletica.

Questo cambiamento non è solo culturale, ma profondamente antropologico. Lo sport è passato dall’essere una scelta di pochi privilegiati a una vera e propria vocazione di massa. In molte famiglie, l’allenamento, la dieta, la performance e la visibilità social sono parte integrante della quotidianità. Atleti di ogni disciplina sono oggi considerati modelli da seguire, non solo per le vittorie, ma per il loro stile di vita, il loro aspetto fisico e la loro esposizione mediatica.

Un’opportunità concreta

Per tanti giovani, lo sport rappresenta un’occasione concreta di riscatto sociale, di successo economico e di realizzazione personale. L’accesso a palestre, accademie, centri federali e la diffusione dei social media hanno reso lo sport più accessibile e più visibile. Allenatori, preparatori, nutrizionisti e psicologi dello sport sono diventati figure quotidiane nel percorso di crescita atletica. Le possibilità di “fare carriera” nello sport sono oggi più numerose, anche grazie all’indotto creato da media, sponsor e tecnologia.

Dietro il sogno, anche molte ombre

Tuttavia, questa nuova dimensione dello sport, se da un lato apre nuove strade, dall’altro ne nasconde anche le fatiche, i rischi e le fragilità. Il desiderio di diventare professionisti, spesso coltivato fin da giovanissimi, può generare una pressione psicologica molto forte. L’ansia da prestazione, la paura di deludere, l’ossessione per il risultato e l’identificazione totale con il proprio ruolo di atleta possono portare a stati di stress, isolamento, frustrazione e, in alcuni casi, a veri e propri disturbi psicologici.

Molti giovani finiscono per sacrificare amicizie, scuola, tempo libero, crescita personale. Non di rado si trovano a dover affrontare delusioni profonde, specialmente se il sogno sportivo si interrompe per un infortunio, un’esclusione o semplicemente perché non si è “abbastanza bravi”.

Anche le famiglie, seppur animate dalle migliori intenzioni, possono contribuire a creare pressioni eccessive. L’idea di “investire” nello sport dei figli può portare a coltivare aspettative troppo alte, trasformando un’opportunità educativa in una corsa verso il successo.

L’importanza dell’equilibrio

È quindi fondamentale promuovere una cultura dello sport che non si limiti alla performance, ma che tenga conto della persona nel suo insieme. Lo sport deve essere innanzitutto un’esperienza di crescita, di apprendimento, di relazione. È giusto coltivare i sogni, ma è altrettanto giusto accompagnare i giovani nel percorso, aiutandoli a gestire le sconfitte, a mantenere un equilibrio tra sport e vita personale, a non legare la propria autostima solo ai risultati.

Genitori, allenatori, insegnanti e istituzioni hanno un ruolo centrale in questo. Devono essere alleati nel costruire un ambiente sano, che sappia sostenere senza opprimere, motivare senza ossessionare, educare anche alla possibilità del fallimento.

Conclusione

Lo sport oggi è una delle espressioni più forti della nostra società: riflette i sogni, le ambizioni e i valori dei giovani. È giusto valorizzarlo, ma anche proteggerlo. Solo se riusciremo a guardarlo non solo come strumento di successo, ma come esperienza umana complessa, potremo trasmettere alle nuove generazioni un’idea di sport che faccia bene al corpo, ma anche alla mente e al cuore.

Rafa Nadal: non chiamiamolo leggenda

Ieri, al Roland Garros, è stato celebrato Rafa Nadal per le sue 14 vittorie in 20 anni in questo torneo. È stato un percorso impensabile, tanto meno programmabile. A riconoscergli questa impresa sono accorsi 14.000 spettatori, insieme agli altri tre giocatori che hanno dominato con lui il tennis negli ultimi 25 anni: Roger Federer, Novak Djokovic e Andy Murray. Nadal, come loro, è stato un vincitore seriale: ha conquistato 22 Slam e ha vinto il 96% delle partite giocate al Roland Garros.

Una serie incredibile di successi, probabilmente irripetibile nei numeri, come lo sono anche quelli degli altri tre componenti di questo gruppo soprannominato “I Favolosi 4”. Ma non chiamiamoli leggende dello sport. Un tempo con questo termine si indicavano i santi, la cui vita veniva narrata e arricchita dalla fantasia popolare. Oggi, non abbiamo bisogno di abbellire con la nostra immaginazione da tifosi la storia di successo di Nadal e dei suoi avversari. Devono rimanere, agli occhi di tutti, atleti che hanno realizzato qualcosa che nessun altro era riuscito a fare.

Se vogliamo che i giovani tennisti li considerino un punto di riferimento da cui imparare, dobbiamo seguirne le imprese per comprendere davvero come si diventa vincitori seriali.

Molti giovani talenti nello sport si perdono per strada anche perché vivono in modo fideistico i successi dei campioni che ammirano. Non comprendono cosa ci sia alla base delle vittorie e vedono solo che, nei momenti difficili, mantengono l’autocontrollo e riescono a uscirne. Raramente si chiedono come abbiano imparato ad affrontare quelle situazioni, perché la loro convinzione li porta a pensare che riescano a risolvere i problemi meglio degli altri semplicemente perché sono campioni. È lo stesso atteggiamento che si ha nei confronti della vita dei santi: la si arricchisce con interpretazioni personali prive di qualsiasi legame con la realtà.

Per questo, non chiamiamoli leggende: questa lettura non aiuta a capire le ragioni profonde dei loro successi ricorrenti.

Chi preferisce pensare che Nadal sia una leggenda non potrà mai fare proprio un concetto fondamentale insegnatogli da Toni Nadal, zio e allenatore: da giovane, Rafa aveva compreso e accettato pienamente l’importanza dell’impegno quotidiano, senza eccezioni, durante tutti gli anni di allenamento.
Si presentava sempre in campo con l’atteggiamento giusto, senza lasciarsi andare allo sconforto o a gesti di frustrazione come rompere una racchetta, pronto a lavorare più del previsto, senza mai lamentarsi, colpendo ogni volta la palla con la massima determinazione.
Ma, più di ogni altra cosa, aveva accettato con maturità che, anche rispettando tutto questo con costanza, il successo non sarebbe stato garantito.

Non perdiamo mai di vista il lato umano e personale dei campioni più vincenti della storia dello sport, altrimenti sprecheremo l’occasione di imparare davvero da loro.

Tennis: tanto allenamento e poca fiducia – come è possibile?

Come è possibile che un giovane tennista di 16/18 anni che gioca a tennis 50 ore al mese, preparazione fisica 25 ore, 5 ore di allenamento mentale per un totale di 800 ore per 10 mesi non sia consapevole di questo dato e non faccia rendere come potrebbe questa esperienza in torneo? insicurezza? Poca comprensione del valore dell’allenamento? Allenatori fanno poco per renderli consapevoli e parlare insieme di queste cose’ troppa pressione sulla vittoria allontana questi pensieri? Troppa attenzione a correggersi e poca sulle abilità acquisite?

Immaturità emotiva e poca fiducia 

A quest’età, spesso,  l’identità sportiva è ancora in formazione. Il confronto continuo con i pari o con aspettative esterne (famiglia, coach, ranking) può minare la fiducia:

  • Nonostante il carico di lavoro, l’autoefficacia (la sensazione di “sono capace”) può non consolidarsi.
  • Le sconfitte pesano più delle ore investite, perché l’ego sportivo è fragile.

Focus distorto: vincere vs. migliorare

Spesso il messaggio, anche implicito, è: “Conta vincere”. Questo porta a:

  • Disconnessione dal processo: il giovane non pensa “ho fatto 800 ore”, ma “ho perso al primo turno”.

  • Sottovalutazione dei progressi invisibili, perché l’unico feedback viene dal risultato.

Allenatori: poco spazio alla consapevolezza

Molti allenatori lavorano tanto sul “cosa fare”, ma poco sul “cosa significa ciò che stai facendo”:

  • Raramente si riflette insieme sull’identità dell’atleta, sui progressi, sull’esperienza acquisita.
  • Si correggono errori, ma non si celebrano abbastanza le competenze sviluppate.

Mancanza di alfabetizzazione mentale

Cinque ore al mese di allenamento mentale spesso non bastano per:

  • Costruire consapevolezza del proprio percorso.
  • Apprendere strategie di auto-riflessione, auto-valutazione e regolazione emotiva.
  • Lavorare in profondità su concetti come valore del lavororesilienzavisione di lungo termine.

Sovra-correzione tecnica: l’atleta non “vede” ciò che sa fare

Quando l’attenzione è sempre su cosa va corretto:

L’atleta non interiorizza ciò che ha già acquisito.

Sente che non è mai “abbastanza pronto” per esprimersi, e rimane incastrato in una mentalità da “work in progress” continuo, che soffoca la fiducia in gara.

Conclusione: la consapevolezza va allenata, non capita da sola

Per trasformare le 800 ore in prestazione solida serve:

  • Un lavoro educativo multidisciplinare (coach, preparatore mentale, genitori).
  • Costruire una narrativa interna chiara: “Chi sono? Quanto sono cresciuto? Cosa sto sviluppando?”
  • Ridurre l’ossessione sul risultato a breve termine.
  • Valorizzare l’esperienza, la fatica e le abilità costruite.

Le pressioni sociali che generano l’abbandono sportivo delle ragazze

Una recente ricerca condotta a livello globale dal marchio Unilever, in collaborazione con il Centre for Appearance Research (CAR) e il Tucker Center for Research on Girls & Women, ha evidenziato un fenomeno preoccupante legato all’abbandono dello sport da parte delle adolescenti. In Italia, lo studio è stato approfondito da AstraRicerche, con risultati che meritano attenzione.

Dati principali emersi dalla ricerca

  • Abbandono dello sport tra le ragazze adolescenti:
    • Il 50% delle ragazze tra i 13 e i 17 anni smette di praticare sport.
    • Tra queste, 2 su 3 lo fanno a causa di insicurezze legate all’aspetto fisico e alla mancanza di fiducia in sé stesse.
  • Reazione dei genitori all’abbandono sportivo:
    • Quando è una figlia ad abbandonare lo sport, la scelta viene accettata nel 73% dei casi.
    • Se invece è un figlio, il tasso di accettazione scende al 51%: i genitori sono più propensi a spingere i ragazzi a continuare, mostrando una chiara differenza di atteggiamento tra i sessi.
  • Pressioni estetiche e disagio:
    • Il 47% delle ragazze italiane intervistate dichiara di sentirsi a disagio a causa delle pressioni sociali che impongono di essere sempre in forma e attraenti.
  • Origine delle critiche:
    • Il 45% delle ragazze afferma di essere stata criticata in relazione al proprio aspetto.
    • Le critiche provengono perlopiù dai coetanei.
      • Nel 22% dei casi, le critiche arrivano da altre ragazze.
      • Nel 15% dei casi, sono i ragazzi a rivolgerle.
    • Questo dato mette in luce una contraddizione con l’idea di solidarietà femminile, spesso promossa ma non sempre rispecchiata nella realtà.

Questi numeri sottolineano quanto le pressioni legate all’immagine corporea e le differenze di trattamento tra ragazzi e ragazze influenzino in modo significativo la partecipazione delle adolescenti allo sport, contribuendo a un problema che ha risvolti sociali e psicologici importanti.