Nello sport giovanile, sia negli sport di squadra che in quelli individuali, l’approccio dominante è ancora fortemente istruttivo: l’allenatore parla, i giovani eseguono. Si vedono ancora tante ripetizioni meccaniche, esercizi isolati, e poche situazioni in cui l’atleta è chiamato a pensare, scegliere e adattarsi.
Ma perché succede questo, nonostante le ricerche moderne e la pedagogia sportiva indichino la direzione opposta?
Cultura dell’allenamento tradizionale - Molti allenatori sono cresciuti in un sistema basato sulla trasmissione del sapere dall’alto. Questo modello:
- privilegia la ripetizione tecnica;
- viene percepito come “ordinato” e controllabile;
- non tiene conto della complessità cognitiva del gioco.
Pressione sui risultati a breve termine - Allenatori, dirigenti e genitori spesso puntano ai risultati immediati: vincere partite, vedere un “gioco ordinato”, evitare errori. Questo causa:
- semplificazione dell’insegnamento in schemi rigidi e standardizzati;
- riduzione dell’autonomia dell’atleta;
- esclusione o penalizzazione di chi “non fa vincere” subito;
- soffocamento della creatività.
L’attenzione al risultato sostituisce la cura per il processo di crescita a lungo termine.
Scarsa formazione degli allenatori - Molti tecnici nei settori giovanili:
- non hanno una preparazione approfondita su metodologie attive;
- non conoscono strumenti come il modello ecologico, il constraints-led approach, o il teaching games for understanding;
- si rifanno a modelli “di successo” visti negli adulti, che però non funzionano allo stesso modo coi giovani.
Difficoltà nel gestire l’apprendimento complesso - Un percorso che sviluppa la comprensione del gioco richiede:
- tempo e pazienza;
- accettare l’errore come parte del processo;
- capacità di porre domande stimolanti, non solo dare istruzioni.
Molti allenatori temono di perdere il controllo se aprono il gioco all’iniziativa dei ragazzi, perché l’apprendimento attivo può sembrare caotico all’esterno.
Stereotipi e modelli sbagliati - Nei media sportivi si esaltano spesso allenatori autoritari, schemi rigidi e soluzioni “da lavagna”. Questo alimenta l’idea che si debba fare anche nei settori giovanili, quando invece il bambino e l’adolescente non hanno bisogno di eseguire schemi, ma di capire e decidere.
Spesso sento dire che i giovani non sono tenaci, resilienti e in sostanza non hanno carattere.
Poi mi guardo in giro e vedo persone in forte sovrappeso, adulti che non staccano l’occhio dal cellulare neanche quando attraversano la strada, persone che per un nonnulla iniziano a suonare il clackson, e potrei continuare con altri esempi che rivelano un mondo di persone impazienti, sempre alla ricerca di qualcosa di cui lamentarsi e che complessivamente mostrano poco autocontrollo, poca competenza nel sapere autoregolare i loro comportamenti in situazioni pubbliche.
E allora mi viene in mente che probabilmente non sono i giovani ad avere problemi, ma gli adulti a mancare di quella capacità di rispettare se stessi e gli altri e di essere un punto di riferimento morale ed educativo.
Sono temi di cui si parla spesso sui media, ma stare per strada in un quartiere benestante di Roma e osservare questi comportamenti dovrebbe fare riflettere su come i limiti del mondo degli adulti siano così evidenti anche nelle quotidianità più spicciola.
Molti psicologi che si avvicinano al mondo dello sport incontrano difficoltà operative significative, spesso legate alla loro formazione prevalentemente centrata sui principi dell’apprendimento cognitivo. Questo approccio, valido in ambito clinico o educativo, risulta però parziale e talvolta inadeguato quando applicato al contesto sportivo, dove l’apprendimento motorio riveste un ruolo fondamentale.
L’apprendimento motorio, infatti, non si limita alla comprensione intellettuale di un gesto, ma coinvolge processi neuromuscolari, percettivi, emotivi e motivazionali. Richiede esperienza diretta, ripetizione, adattamento all’ambiente e una costante integrazione tra mente e corpo. Ignorare questi aspetti significa non cogliere la complessità dell’agire atletico e, di conseguenza, proporre interventi psicologici scarsamente efficaci o scollegati dalla pratica sportiva quotidiana.
Un ulteriore limite risiede nella scarsa familiarità con il concetto di competitività, elemento centrale e distintivo dello sport agonistico. A differenza di quanto avviene in molti contesti professionali e organizzativi – dove la cooperazione e l’equilibrio relazionale sono valori prevalenti – nello sport l’obiettivo della vittoria, la gestione della pressione, il confronto diretto con l’avversario e la tolleranza dell’errore costituiscono sfide quotidiane. Tali dinamiche richiedono competenze psicologiche specifiche, non riducibili a protocolli standardizzati.
In questo contesto, si rischia di sopravvalutare l’efficacia di tecniche psicologiche generaliste – come la mindfulness, la respirazione o la visualizzazione – considerate talvolta soluzioni universali. Sebbene utili, queste tecniche devono essere integrate in un percorso strutturato, costruito su una solida conoscenza del funzionamento psicofisico dell’atleta e dei principi dell’allenamento motorio e sportivo, e sempre adattato alle caratteristiche individuali, alla età e al livello di competizione.
In conclusione, operare nello sport agonistico richiede una formazione specifica che vada oltre le competenze psicologiche tradizionali, includendo una comprensione profonda dei processi motori, delle logiche della performance e delle pressioni tipiche del contesto competitivo.
Sintesi, non completa, di cosa dovrebbe saper fare uno psicologo che lavora nel tennis: comprendere gli stati d’animo del tennista in partita e origine degli errori; lavorare per ristabilire alcune funzioni mentali essenziali.
Nel contesto dell’atletica leggera, la tenacia e la resilienza degli atleti vengono messe frequentemente alla prova durante gli allenamenti. Gli esercizi basati su tempi prestabiliti, ripetute estenuanti e ritmi di gara simulati rappresentano sfide quotidiane che costringono gli atleti ad attingere profondamente alle loro risorse mentali per mantenere la prestazione richiesta. In questo modo, qualità psicologiche fondamentali come la gestione della fatica, la capacità di sopportare lo stress e la determinazione a non cedere diventano parte integrante del processo di allenamento, venendo sollecitate e sviluppate in modo sistematico e diretto.
Al contrario, negli sport individuali a componente tattica più marcata (come il tennis, il judo, la scherma, ecc.), allenare tenacia e resilienza fuori dal contesto competitivo si rivela molto più complesso. In allenamento, infatti, le situazioni di stress emotivo, incertezza o pressione decisionale sono spesso simulate solo in parte e non sempre riescono a riprodurre la tensione reale della gara. Di conseguenza, gli atleti possono arrivare alla competizione senza essere completamente preparati ad affrontare momenti critici come un calo di rendimento, un errore decisivo o la pressione dell’avversario. Questo “gap” tra l’allenamento e la gara espone l’atleta al rischio di cedimenti mentali nei momenti più delicati.
Per colmare questa distanza, è fondamentale integrare nell’allenamento situazioni che stimolino le componenti emotive e psicologiche della prestazione, creando contesti artificialmente stressanti o inserendo variabili impreviste che obblighino l’atleta a reagire, adattarsi e mantenere lucidità tattica sotto pressione.
Gli allenamenti devono includere esercizi in cui l’atleta si trovi a gestire:
- Punteggi sfavorevoli simulati (es. partire sotto di un set o con punti di svantaggio).
- Obiettivi a tempo o a vincolo (es. “devi vincere 3 scambi consecutivi in 2 minuti” o “risolvere un’azione entro pochi secondi”).
- Decisioni rapide con opzioni variabili, proprio come in gara.
2. Inserire imprevisti e variabilità
Non sempre l’allenamento deve essere prevedibile:
- Cambiare le condizioni improvvisamente (es. campo più stretto, avversario diverso, modifiche delle regole).
- Introduzione di “disturbi” controllati (rumori, interruzioni, piccoli errori da gestire).
3. Allenare la fatica mentale oltre che fisica
In gara, lo stress mentale pesa quanto quello fisico:
- Prevedere esercitazioni in condizioni di stanchezza (ad esempio, lavorare sulla tattica o sulla tecnica subito dopo sforzi intensi).
- Far prendere decisioni sotto affaticamento cognitivo, non solo fisico.
4. Lavorare sull’autoefficacia e sulle strategie di coping
Integrare sedute specifiche, anche brevi, in cui:
- Si insegnano tecniche di gestione dello stress (respirazione, self-talk positivo, routine di reset mentale).
- Si costruisce fiducia attraverso il “problem solving” in allenamento (“Cosa fai se perdi fiducia? Come reagisci se sei sotto pressione?”).
5. Misurare anche gli aspetti mentali
Non valutare solo il risultato tecnico o fisico, ma anche:
- La capacità di reagire agli errori.
- La prontezza nel cambiare strategia.
- La qualità delle scelte sotto pressione.
L’attaccante della Roma e campione del mondo con l’Argentina, Paulo Dybala, è stato nominato oggi Ambasciatore Laureus. Il trentunenne calciatore argentino ha dato il via al suo nuovo incarico con una visita al programma Laureus Sport for Good a Roma e lunedì ha partecipato alla 25esima edizione dei Laureus Sport World a Madrid.
Dybala ha vinto cinque titoli di Serie A con la Juventus e il Mondiale con l’Argentina nel 2022. La stella argentina, che ora gioca per la Roma, ha visitato il nostro progetto ’Calcio Insieme’, sostenuto da As Roma che usa il calcio per aiutare i bambini con disabilità intellettive. Oltre 30 bambini e ragazzi hanno incontrato il nuovo Laureus Ambassador.
Le parole di Sara Curtis, 18 anni prima nuotatrice mulatta che ha stabilito i primati nazionali 50 e 100 stile libero, sono profondamente ispirate e rivelano una maturità straordinaria per una ragazza di soli 18 anni. Ecco alcuni spunti di riflessione sulle sue frasi:
- “Nello sport se ti nutri di parole belle e sagge, il tuo corpo va verso una direzione positiva…”
Questa osservazione mostra quanto sia forte il legame tra mente e corpo. Sara sottolinea l’importanza del linguaggio e delle emozioni positive nella performance sportiva. È una visione olistica: l’atleta non è solo fisico, ma anche emozione, pensiero, spirito. - “Il nuotatore, poi, deve resistere alla solitudine della piscina.”
Questa frase racconta una verità spesso taciuta: il nuoto, come pochi altri sport, è profondamente solitario. Richiede introspezione e capacità di convivere con sé stessi, nel silenzio dell’acqua e nella ripetitività dell’allenamento. - “E avere una vita tra virgolette normale: passioni, uscite, studio.”
Sara dimostra di aver compreso l’importanza dell’equilibrio. Anche chi insegue l’eccellenza nello sport ha bisogno di stimoli esterni, di affetti, di una quotidianità che lo completi come persona. - “Ascolto il podcast di Zazzeri e Restivo su doppia carriera…”
Questo dettaglio mostra quanto Sara sia consapevole e curiosa. Il fatto che tragga ispirazione da colleghi più grandi e cerchi modelli da seguire dimostra umiltà e intelligenza. - “Il nuoto è molto mentale… può diventare deleterio e alienante.”
Qui emerge il lato oscuro dello sport: la pressione, la concentrazione esasperata, il rischio dell’isolamento. Sara non ha paura di affrontare queste tematiche e di dire che, se non bilanciato, anche lo sport può diventare una prigione. - “Io sono fortunata: ho una famiglia che mi offre una doppia visione sulle cose.”
La gratitudine verso la famiglia è toccante. Indica che il suo equilibrio viene anche da un contesto affettivo solido, che le permette di guardare lo sport con lucidità e non solo con ansia da prestazione.
In sintesi, Sara Curtis non è solo una promessa del nuoto italiano, ma anche una giovane donna con una visione limpida, consapevole e ricca di umanità. Le sue parole sono una lezione per molti, dentro e fuori dall’acqua.